Nell’ambito del diritto del lavoro lo STUDIO LEGALE RICCIO segue vertenze in materia di lavoro assumendo incarichi sia da parte dei lavoratori che delle aziende.
– recupero emolumenti non corrisposti dal datore di lavoro
– demansionamento e mobbing
– licenziamenti illegittimi
– infortuni sul lavoro
RECUPERO EMOLUMENTI
Il nostro studio collabora con consulenti del lavoro che, a richiesta del cliente, elaborano il conteggio degli emolumenti dovuti secondo le mansioni svolte ed in relazione al contratto di lavoro ed ai contratti collettivi.
Ottenuto il calcolo delle somme non corrisposte, viene introdotta la fase stragiudiziale di richiesta di conguaglio al datore di lavoro ed eventualmente la fase contenziosa.
Per quanto attiene alle cause di mobbing occorrerà approfondirne sia
MOBBING
Per mobbing si intende un comportamento persecutorio rivolto nei confronti del lavoratore, che si protrae nel tempo, causandogli un danno alla salute di natura psico-fisica.
Per quanto attiene la richiesta di risarcimento danni da mobbing, occorrerà analizzare i comportamenti del datore di lavoro o dei colleghi della supposta vittima di mobbing, al fine di verificare se sussistono i presupposti di un’azione.
E’ bene ricordare che costituisce mobbing quella violenza psicologica perpetrata nei confronti del lavoratore subordinato dal datore di lavoro, da un collega o da un gruppo, finalizzata ad isolarlo ed ottenere eventualmente il suo licenziamento spontaneo.
Esempi di condotta mobbizzante sono: i continui richiami, i procedimenti disciplinari infondati o pretestuosi, il demansionamento, la privazione di un posto dove svolgere il lavoro (privazione della scrivania, del p.c. ecc..) o la collocazione in luoghi di lavoro disagiati, l’immotivata l’interruzione di incarichi un tempo sempre assegnati.
Le tipologie più comuni di mobbing sono.
– il mobbing gerarchico, ovvero messo in essere dal datore di lavoro o da un superiore di grado
– il mobbing strategico, finalizzato ad ottenere lo spontaneo licenziamento del lavoratore
– il mobbing orizzontate, messo in atto dai colleghi di pari grado, prevalentemente un gruppo.
Bisogna comunque tenere conto che spesso singoli episodi vessatori non sono sufficienti a concretare l’ipotesi persecutoria.
Di fatto le sentenze di accertamento del mobbing non sono molte; il più delle volte i tribunali sono inclini a condannare il datore di lavoro per altre fattispecie quale il licenziamento illegittimo o il demansionamento del dipendente, piuttosto che per mobbing.
Secondo la recente giurisprudenza della (Corte di Cass. civile, sez. lav, n. 28962/2011) per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della sua configurabilità sono rilevanti:
a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore;
d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
Il problema principale è la prova del comportamento illecito del datore di lavoro o dei colleghi; questi ultimi, anche solo per timore di ripercussioni, sono inclini a rendere testimonianze lacunose. Diventa così difficile dimostrare il nesso di causa tra i fatti denunciati e l’aggravarsi della salute del lavoratore .
In punto difficoltà della prova si legga la seguente massima della Cassazione:
“In tema di mobbing, il lavoratore che agisce in giudizio è tenuto a provare la durata del comportamento vessatorio, il carattere discriminatorio della condotta datoriale ed il relativo elemento psicologico-soggettivo, ed infine la volontà datoriale di estromissione del lavoratore dal contesto lavorativo (nella specie, la Corte ha respinto il ricorso del lavoratore non ravvisandosi un nesso causale fra la patologia psichica da cui era risultato affetto il lavoratore ed il disagio derivante dall’ambiente lavorativo e non essendo nemmeno possibile individuare i soggetti responsabili dell’allegato mobbing con riferimento a comportamenti specifici e rilevanti).”
Cass.civile, sez. lav., n. 87/2012
LICENZIAMENTI
Quanto alle vertenze relative ai licenziamenti, occorre tenere presente quanto segue.
La legge 604 del 1966 stabilisce che il licenziamento può essere disposto soltanto per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo o oggettivo.
La giusta causa sussiste quando il lavoratore ha commesso un grave illecito che ha fatto venir meno il rapporto di fiducia con il datore di lavoro; tipico è l’esempio del furto compiuto dal lavoratore. In questo caso il datore di lavoro ha il diritto di licenziare in tronco, ovvero senza preavviso il dipendente.
Normalmente la casistica che giustifica la giusta causa di licenziamento è prevista nei Contratti Collettivi; tuttavia essa non è vincolante per il giudice che deve decidere nel merito, infatti dice la Cassazione:
“… la giusta causa di licenziamento è nozione legale ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo; ne deriva che il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore; per altro verso il giudice può escludere che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato”. Corte di Cassazione n. 1405 del 31 gennaio 2012
Il giustificato motivo soggettivo sussiste quando il lavoratore sia venuto meno ai suoi obblighi, ma l’inadempimento sia di minore gravità rispetto a quello che giustifica il licenziamento per giusta causa, pertanto il lavoratore ha diritto al preavviso.
Ad esempio vi sono i presupposti per questo tipo di licenziamento nel caso di abbandono ingiustificato del posto di lavoro, di litigi in azienda, di minacce.
Anche i caso di malattia protrattasi per un tempo superiore al periodo di comporto, è possibile il licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
Il giustificato motivo oggettivo attiene a problematiche aziendali di natura economica o produttiva. Si tratta del caso in cui l’impresa non è in grado di garantire il lavoro a tutti i dipendenti, dovendo così ridurre il personale o privarsene del tutto (cessazione dell’attività, fallimento, riorganizzazione aziendale).
Per la validità del licenziamento il datore di lavoro deve adempiere a determinate disposizioni legislative, ovvero deve comminare il licenziamento in forma scritta e, se non ha motivato il licenziamento nella comunicazione al lavoratore, deve farlo entro 15 giorni dalla richiesta di quest’ultimo.
A sua volta il lavoratore ha l’onere di impugnare il licenziamento entro 60 giorni dalla comunicazione e deve farlo per iscritto (preferibilmente raccomandata a.r.); deve poi, entro 270 giorni, proporre istanza di conciliazione (che è facoltativa) o ricorso davanti all’autorità giudiziaria.
L’effetto della illegittimità del licenziamento, nel caso in cui l’azienda presso la quale è occupato il lavoratore occupi sino a 15 dipendenti, non è la nullità dello stesso, ma la sanzionabilità, sotto l’aspetto economico, a favore del lavoratore, del comportamento del datore di lavoro.
La Legge 604/1966 prevede che, nel caso in cui non ricorrano gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro, che non intende riassumere il lavoratore deve versandogli un’indennità di importo compreso fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.
Qualora, invece, il lavoratore sia dipendente di un’azienda che occupi più di quindici dipendenti nell’unità produttiva in cui lavora, oppure nell’ambito dello stesso comune (o 60 lavoratori entro il territorio nazionale), si applica il nuovo testo dell’art.18 della della Legge 300/1979, così come riformato dalla Legge 92/2012 che si richiama di seguito
1. Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n.198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.
2. Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
3. Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.
4. Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, perché il fatto contestato non sussiste o il lavoratore non lo ha commesso ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle tipizzazioni di giustificato motivo soggettivo e di giusta causa previste dai contratti collettivi applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non potrà essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall’illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest’ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d’ufficio alla gestione corrispondente all’attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma.
5. Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.
6. Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, secondo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, della procedura di cui all’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, o della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o sesto..
7. Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi dell’articolo 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustifico motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell’indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al sesto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo.
8. Le disposizioni dal comma quarto al comma settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti ed all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti.
9. Ai fini del computo del numero dei dipendenti di cui all’ottavo comma si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale. Il computo dei limiti occupazionali di cui al nono comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.
10. Nell’ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo.
11. Nell’ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
12. L’ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l’ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell’articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
13. L’ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.
14. Nell’ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all’ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l’ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore.
SCHEMA DELLA RIFORMA DELL’ART.18
Tutela reale |
§ nel caso di licenziamento discriminatorio (per matrimonio, violazione della tutela della maternità e gli altri casi previsti dalla legge). § nelle ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, perché il fatto contestato non sussiste o il lavoratore non lo ha commesso ovvero perché rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base dei contratti collettivi applicabili. § nel caso di licenziamento orale § nel caso di difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi dell’articolo 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore e violazione art.2110 C.C. § Nel caso di accertamento della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustifico motivo oggettivo; |
Tutela risarcitoria |
§ nelle altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa. § nell’ipotesi di violazione del requisito di motivazione del licenziamento di cui all’articolo 2, II co., legge 604/66 -, della procedura di cui all’art.7 L. 300/1970 o della procedura di cui all’art. 7 della L. n. 604/1966. § nelle altre ipotesi in cui non in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo |
INFORTUNI SUL LAVORO
Nell’ambito della responsabilità civile e del risarcimento danni, lo STUDIO LEGALE RICCIO offre la sua assistenza nei casi di infortunio sul lavoro.
Nei casi in esame l’azione risarcitoria deve tenere conto della copertura indennitaria dell’INAIL che spetta ai lavoratori assicurati nei casi di infortunio sul lavoro o in itinere.
Come è noto l’INAIL indennizza gli assicurati per le menomazioni psico-fisiche permanenti superiori al 5% di invalidità.
Nel caso di lesioni fisiche comprese tra il la percentuale del 6% e del 15%, il lavoratore ha diritto da parte dell’INAIL all’indennizzo , in forma di capitale, del solo danno biologico.
Nell’ipotesi in cui l’infortunato abbia patito un grado di invalidità permanente superiore al 15%, l’istituto gli corrisponderà una doppia rendita, che andrà ad indennizzare, da un lato parte del danno biologico subito, dall’altro le conseguenze patrimoniali che siano derivate dalle lesioni subite (c.d perdita di capacità di lavoro generica).
Nel caso, invece, in cui il danneggiato abbia patito un danno biologico entro la percentuale del 5%, l’INAIL non provvede ad alcun indennizzo, dovendo provvedere al risarcimento il datore di lavoro.
Il danno differenziale
E’ bene saper che l’indennizzo che viene erogato dall’INAIL in ottemperanza al D.P.R. n.38/2000, non soddisfa completamente il diritto al risarcimento spettante al lavoratore a seguito dell’infortunio occorsogli e rientrante nella responsabilità del datore di lavoro.
Esistono tipologie di danno che sono escluse dall’indennizzo e pertanto ripetibili nei confronti del responsabile civile. Si tratta del cosiddetto danno differenziale .
Il danno differenziale è costituto dalle seguenti voci:
1. Differenza di punteggio, e quindi di risarcimento, tra le tabelle del danno biologico INAIL e quelle R.C.
2. Danno biologico temporaneo (risarcito tramite la corresponsione di una sorta i diaria giornaliera parametrata ai giorni di malattia e di cura)
3. Lucro cessante; ovvero le eventuali differenze retributive rispetto a quanto corrisposto dal datore di lavoro e dall’INAIL nel periodo dell’infortunio (si tratta di differenze relative ad eventuali straordinari, trasferte o premi di produzione, normalmente percepiti in busta e andati perduti a causa dell’assenza lavorativa)
4. Danno emergente; costituito ad esempio dalle spese sostenute per le cure mediche e fisioterapiche non mutualizzate o non indennizzate dall’INAIL)
5. Danno morale ed esistenziale, ovvero il risarcimento del danno dovuto alla sofferenza patita; voce non ricompresa nel danno biologico indennizzato dall’istituto.
L’infortunato, dunque, una volta stabilizzati i postumi dell’invalidità permanente e dopo aver ottenuto l’indennizzo INAIL, ha la possibilità di agire direttamente nei confronti del datore di lavoro al fine di vedersi riconosciute le ulteriori voci di danno escluse dall’indennizzo dell’assicuratore sociale.
In punto danno differenziale una recente ed interessante sentenza della corte di Appello di Venezia (sent. 21 luglio 2011) ha stabilito un importante precedente giurisprudenziale in ordine al danno differenziale.
La Corte ha stabilito che, nei casi di invalidità oltre il 15%, ai fini della determinazione del danno differenziale in punto danno biologico, occorre detrare dalla rendita riconosciuta dall’INAIL quella parte di indennizzo riconosciuto per la perdita della capacità di lavoro.
Se infatti si sottrae alla rendita (capitalizzata) quanto riconosciuto dall’INAIL per la perdita della capacità di lavoro, risulta che l’indennizzo ottenuto dal lavoratore per il solo danno biologico è notevolmente inferiore a quello spettante in sede di responsabilità civile, cosicché maggiore sarà la somma da chiedere al datore di lavoro come danno residuale.
Qualche accenno alla responsabilità del datore di lavoro
L’art. 2087 C.C. dispone che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” .
La legge impone dunque al datore di lavoro di tutelare la salute dei suoi dipendenti, nonché la loro personalità morale.
Quando si verifica un incidente sul lavoro occorre, allora, verificare se il fatto si sia verificato per colpa del datore di lavoro, insomma se lo stesso non sia venuto meno al dovere imposto dal citato art. 2087 C.C..
In quest’ottica è di particolare rilievo che sia il datore di lavoro, in caso di sinistro, a dover dare la prova di aver messo in atto tutte le disposizione anti infortunistiche che la legge e la prudenza impongono.
Infatti dice la Cassazione: Non è il lavoratore infortunato a dover dimostrare nel giudizio per la richiesta di risarcimento del danno le misure di sicurezza in dotazione. Spetta al datore di lavoro. Infatti, la responsabilità del datare di lavoro ex art. 2087 cod. civ. è di carattere contrattuale, atteso che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge, ai sensi dell’art. 1374 cod. civ., dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale». Da ciò deriva che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini dell’art. 1218 cod. civ. circa l’inadempimento delle obbligazioni. Insomma, «il lavoratore il quale agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro deve allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, l’esistenza del danno ed il nesso causale tra quest’ultimo e la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile e, cioè, di aver adempiuto interamente all’obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno». Cassazione civile, sez. lav., 22/12/2011, n. 28205
Non solo, oltre a predisporre i mezzi di protezione, il datore di lavoro deve vigilare sui lavoratori affinché i mezzi stessi siano utilizzati : “Il datore di lavoro deve non solo predisporre le misure necessarie a garantire l’incolumità del lavoratore, ma anche vigilare sulla loro osservanza da parte di quest’ultimi”. Cassazione civile, sez. III, 09/05/2011, n. 10097
In conclusione, in caso di sinistro sul lavoro, a prescindere dall’indennizzo dell’INAIL, sempre dovuto quando il danno permanente supera il 5%, il lavoratore ha diritto di rivolgersi al Tribunale affinché, accertata la responsabilità del datore di lavoro, gli venga corrisposto il danno differenziale del quale si è accennato pocanzi .